6.
L’ETERNA GIOVINEZZA
Sandra
Karin aveva dei crolli impressionanti: quattro giorni stava bene e cinque male, finché non arrivava Martín con un pacchetto della grandezza di una mano che Karin si portava in camera sua. All’inizio non collegai il pacchetto alla sua salute, ma a poco a poco feci due più due. I miei occhi vedevano che il pacchetto arrivava e che Karin migliorava, e la mia testa continuò a lavorare finché non ebbi altra scelta che sospettare. Cosa c’era in quel dannato pacchetto? Facevano in modo che non lo avessi mai a portata di mano. Se Karin era a letto quando Martín arrivava, lui stesso o Fred glielo portavano su, oppure scendeva lei. Se erano fuori, Martín apriva lo studio-biblioteca con una chiave che tirava fuori da una tasca, lo lasciava lì e richiudeva la porta. Quelle che all’inizio sembravano semplici abitudini si erano trasformate in autentici misteri: l’uniforme, il pacchetto, la croce d’oro, la porta chiusa. Forse ero tanto occupata a cercare la croce d’oro che non mi ero accorta di una cosa così semplice. Julián si doveva riferire a questo quando mi ripeteva di tenere gli occhi bene aperti, perché spesso pensiamo di non stare vedendo niente mentre in realtà stiamo vedendo molte cose. Sicuramente, oltre al pacchetto, dovevano esserci diversi altri segnali interessanti, e questo doveva tenerli sempre sul chi vive. Quando mi avevano accolto in casa, nella tana del lupo, non gli era passato per la testa che una come me, così lontana dal loro mondo e così sbandata da non sapere che fare della sua vita, una che avevano trovato sulla spiaggia mentre vomitava più sola di un cane e che non era neanche andata all’università, non gli era proprio passato per la testa che una così sarebbe potuta incappare in uno come Julián, che quel Julián avrebbe sollevato un velo e che dietro quel velo ci fosse la verità.
All’inizio di novembre Karin era ridotta a uno straccio da diversi giorni, con un’artrosi galoppante e una stanchezza cronica. Non riusciva neanche a fare le scale, e Fred disse che avrebbero dovuto pensare di installare un montascale elettrico, una cosa che Karin aveva sempre rifiutato perché la faceva sentire una vecchia decrepita. Passava tutto il giorno a letto. Neanch’io stavo bene: tossivo, starnutivo e a volte mi sentivo qualche linea di febbre.
Fred era molto preoccupato per sua moglie: la sua faccia già seria lo era diventata ancora di più, come se ogni tratto, ogni ruga, ogni piccolo muscolo pesassero tonnellate di cemento. Passava le giornate a osservare i peggioramenti di Karin e saliva e scendeva le scale in preda al nervosismo. Ogni dieci minuti chiedeva se avevano portato qualche pacchetto. Gli sembrava di sentir suonare in continuazione il campanello. Supposi che Martín non arrivava con il pacchetto come previsto, e che quel pacchetto era fondamentale perché Karin si riprendesse. Gli altarini si stavano scoprendo e, stando così le cose, da un momento all’altro avrei capito tutto. Da una parte volevo sapere, saziare la mia curiosità, ma dall’altra mi faceva paura che sapessero che io sapevo, così, dopo essermi messa la giacca a vento, dissi a Fred che uscivo.
«Non puoi andartene ora», replicò lui con aria infuriata.
«Devo sbrigare un paio di commissioni. Devo passare in farmacia a comprarmi qualcosa per la tosse.»
«Non stare a preoccuparti della tosse, non è niente.»
Non mi piaceva il suo tono, quell’ira trattenuta sul punto di esplodere da un momento all’altro.
«Mi spiace», ribadii. «Tornerò appena posso.»
«No!» esclamò Fred, poi aggiunse qualcosa in norvegese o tedesco. Qualunque lingua fosse, rendeva comunque l’idea.
Pensai che se fossimo arrivati alle mani io sarei stata più veloce, ma lui era più grosso anche se era vecchio. Era forte, riusciva ad aprire i barattoli che io non riuscivo a svitare, e se era stato un alto ufficiale delle ss sicuramente conosceva un mucchio di tecniche per immobilizzarmi. Potevo mollargli un calcio nelle palle con i miei stivaletti da trekking, ma non ero sicura di volerci provare, e dopo averlo fatto la situazione sarebbe diventata comunque insostenibile. Rimasi dov’ero, con la giacca a vento addosso, guardandolo e tossendo, anche se la tosse dipendeva più dal nervosismo che dall’infreddatura.
«Oggi sono io ad avere bisogno di te. Fino a oggi sei stata tu ad avere bisogno di noi.»
«Come?» dissi, intuendo che non si riferiva solo al fatto che mi avevano dato un lavoro.
«Hai capito bene, ragazzina. A quest’ora saresti già in fondo al mare se io e Karin non ti avessimo protetta.»
Mi lasciai cadere sul divano cercando di pensare velocemente. Come avrei fatto a uscire da quella situazione? Sapevano già che io sapevo, ma fino a che punto? Valeva la pena continuare a far finta di niente?
«Non ho capito», buttai lì.
«Non ho tempo per le stupidaggini. Il tempo delle stupidaggini, delle ragazze allegre e ingenue con piercing e tatuaggi è finito. Ora siamo tutti sulla stessa barca.»
«Voglio sapere perché sono in pericolo e chi vuole uccidermi. »
«Non c’è tempo, ma stai sicura che se ti abbandono al tuo destino potrai salire sul tuo motorino al massimo un altro paio di volte. Non sono in vena di scherzi, e neanche tu dovresti esserlo. Farai quello che ti dico», continuò, senza che mi venisse in mente una sola parola da dire. «Io e Karin non vogliamo che ti succeda niente di male, e se mi dai retta non succederà.»
Mentre Fred parlava, mi domandavo se avessero scoperto Julián. Ero arrivata a Dianium per sfuggire a qualunque tipo di dipendenza, ero venuta per paura di perdere la mia libertà, di sentirmi prigioniera di qualcuno, e ora la mia vita, non solo la mia libertà, era nelle mani di un mucchio di gente che non conoscevo.
Mi sentivo messa all’angolo da Fred, non si era mai rivolto a me in quel modo. Non trovai altra via di uscita che fare ciò che mi chiedeva. Dovevo andare a casa di Alice e rubare una di quelle scatolette che facevano resuscitare Karin e che contenevano delle fiale.
Era meglio che non ci andassi con il fuoristrada: l’avrebbero ricollegato a Fred e Karin, così presi il motorino. Mi venne la tentazione di andare a raccontare tutto a Julián o di scappare e dimenticarmi di tutto, ma ormai ci ero dentro fino al collo e non sarebbe stato così facile uscirne. Mi sarebbero stati sempre addosso, e poi, pensai per un attimo, se la vita mi aveva lanciato quella sfida un motivo doveva pur esserci. Parcheggiai, bussai al numero 50 e mi feci il segno della croce, come nei momenti tragici della vita. Lo feci dando le spalle alle telecamere, respirando profondamente. Non era una buona cosa mettere mio figlio in pericolo, ma era una buona cosa ripulire dalla gentaglia il mondo in cui sarebbe vissuto. Al videocitofono non rispose nessuno e questo mi fece quasi tirare un sospiro di sollievo. Provai di nuovo, e quando stavo per andarmene la porta si aprì. Nonostante facesse freddo iniziai a sudare. In quel preciso istante mi resi conto che ero una codarda. Non lo avrei mai ammesso ma lo ero, anzi mi stavo comportando così proprio per quello, per fare finta di non esserlo. Solo i codardi erano capaci di fare cose come quelle.
Fra il giardino e la strada comparve Frida.
Colsi il suo sguardo ruvido, quello di chi fa ciò che gli viene ordinato, e le dissi che ero venuta per vedere Alice.
«Sta facendo yoga», disse Frida, «però puoi aspettarla.»
«Alice sa che sono qui?» chiesi immaginando che l’avessero avvertita per telefono.
«Sì, arriverà fra una ventina di minuti. Se vuoi ti preparo un tè.»
«D’accordo», risposi mentre ci incamminavamo fra le colonne. «E Otto?»
«È nel suo studio. Non può essere disturbato.»
«Non ce n’è bisogno», dissi io. Non appena la porta di casa si aprì, uscirono ad accoglierci i fastidiosissimi cagnolini di Alice. Siccome lei non c’era non mi presi il disturbo di accarezzarli. Erano carini, ma non provavo niente per loro. Mi sedetti nel salone mentre mi mordicchiavano gli stivaletti. Anche se faceva caldo non mi tolsi la giacca a vento. Mentre Frida mi serviva il tè, mi sfiorai la pancia con la mano e le chiesi dov’era il bagno. Mi indicò quello di servizio accanto alle scale: era piccolo, con un bellissimo lavandino di porcellana tipica della zona. Non sapevo che fare, né dove iniziare a cercare. Oltretutto mi avrebbero scoperto di sicuro, era troppo rischioso con Frida e Otto in casa.
Fred mi aveva chiesto o per meglio dire ordinato di cercare alcune scatole di medicinali contenenti un liquido incolore, senza scritte sulle fiale o sulla confezione. Le avrei trovate nella stanza da letto, al primo piano. Appena entrata, sulla destra, avrei visto un comodino. Era probabile che lì ne tenessero qualcuna, visto che Alice si iniettava fiale a tutte le ore. Potevano essere anche negli armadietti del bagno principale o in cassaforte, ma era impensabile che potessi aprirla. Non riuscivo a inventarmi nessuna scusa per salire al primo piano.
Mi guardai allo specchio: tu non sei fatta per queste cose, lo faccia Fred se vuole. Uscii dal bagno e mi diressi verso la porta di ingresso. Avevo tutto con me, non dovevo tornare di là, ma quando avevo già la mano sulla maniglia Frida, la bionda Frida che mi immaginavo abbastanza bene a gassare la gente senza battere ciglio, mi fermò.
«Non posso fermarmi, non mi sento bene», dissi.
E a quel punto apparve Otto, che si tolse gli occhiali da lettura e si mise quelli da vista. Mi diede un piccolo pacchetto. Era circa la metà di quello che solitamente portava Martín, ma era pur sempre un pacchetto.
«Tieni, porta questo a Karin, ne ha bisogno. Chiamerò fra dieci minuti per sapere se sei arrivata.»
«D’accordo», dissi. «Saluti ad Alice.»
Montai sul motorino assolutamente sconcertata. Non avevo dovuto frugare né rubare in casa di Alice, me lo avevano dato con le buone. Mi consideravano una dei loro ed ero stata sul punto di fare una figuraccia per colpa di Fred. Lui mi aveva detto che avevo compromesso la loro amicizia con Otto e Alice, che la Confraternita non aveva visto di buon occhio che mi avessero accolto in casa loro. Io non chiedevo, non chiedevo quello che già sapevo, ed ero stata sul punto di pregarlo che non mi dicesse altro.
Anche se Otto aveva detto che avrebbe telefonato entro dieci minuti, ebbi la tentazione di fermarmi un secondo per aprire la scatola. Me l’ero vista brutta davvero, non mi ero mai trovata in una situazione del genere, e pensai che meritavo di vedere le famose fiale, di osservarle da vicino.
Sapevo che era impossibile che il pacchetto tornasse esattamente com’era e che si sarebbe visto che lo avevo aperto, ma la curiosità era più forte di tutto il resto, così deviai in una strada appartata. Fermai il motorino, scesi, misi il pacchetto sul sellino e diedi il via all’operazione di sciogliere lo spago, togliere la carta e aprire la scatola pregando che non mi cadesse e che le fiale non si rompessero. Pregai anche che nessuna delle macchine che mi passavano accanto lentamente fosse della Confraternita. Fu difficile disfare il nodo dello spago sottile che chiudeva la scatola. Dovetti affilare le unghie, per così dire, e quando ci riuscii dovevo ancora aprire la carta che l’avvolgeva e rimuovere con grande cautela il nastro adesivo attaccato sui bordi. Avrei dovuto cercare di ricomporlo esattamente com’era, facendo in modo che le pieghe della carta combaciassero e riattaccando il nastro adesivo nello stesso punto.
C’erano solo quattro fiale: erano abbastanza grandi, incolori e senza scritta, come aveva detto Fred. E se ne avessi presa una e l’avessi data a Julián per farla analizzare in un laboratorio? Quell’idea iniziò a ossessionarmi. Cosa dovevo fare? Rischiare un altro po’? Forse la dose era proprio di quattro fiale, e Fred si sarebbe subito accorto che ne avevo presa una. Di sicuro ne avrebbe parlato con Alice e Otto, e loro avrebbero capito subito che l’avevo presa io. Ma se non prelevavo un campione a cosa serviva tutto quello che stavo facendo? A cosa serviva che stessi rischiando la pelle? E se invece si fosse trattato di un tranello? Era molto strano che mi avessero affidato la scatola. Avrebbe potuto portarla Otto, o Frida. C’era qualcosa che non mi tornava, perciò rimpacchettai tutto come meglio potevo. A uno sguardo attento non sarebbe sfuggito che lo spago era stato sciolto e riannodato, ma almeno c’erano tutte e quattro le fiale.
Quando arrivai, Fred si precipitò ad aprirmi personalmente il cancello. Poi si mise a correre dietro al motorino. Nel garage gli diedi il pacchetto.
«Otto ha chiamato dieci minuti fa. Mi ha detto che saresti già dovuta essere qui.»
«Mi sono fermata a fare pipì, non riuscivo a trattenermi.»
La spiegazione lasciò Fred soddisfatto e anche me. Entrammo in casa. Karin era stesa sul divano e aveva addosso un paio di jeans larghi, orribili, che si metteva per stare comoda. Sicuramente si era preparata nel caso fosse dovuta andare in ospedale. Fred aprì il pacchetto davanti a me, tirò fuori una siringa da una di quelle sacche che si usano per riporre i cosmetici, aprì una fialetta, ne aspirò il contenuto con la siringa e la conficcò nella coscia di Karin senza scostare la stoffa. Karin chiuse gli occhi con un sospiro. Fred buttò la siringa e la fialetta rotta nel bidone della spazzatura e guardò nella scatola con più attenzione.
«Ti ha dato solo questo?»
Mi strinsi nelle spalle.
«Alice lo vuole tutto per sé», disse, e subito dopo si pentì di averlo fatto. Se avesse voluto sfogarsi, avrebbe potuto dirlo in norvegese, ma aveva bisogno di condividere la sua rabbia con qualcuno.
«Dimentica tutto quello che ti ho detto su questa storia», ordinò Fred. «Era un’esagerazione. È un farmaco ancora in fase di sperimentazione, non c’è ancora la licenza per venderlo qui, ci arriva dall’estero attraverso un amico di Otto. Per un attimo ho avuto paura che non ce l’avrebbero più dato e mi sono innervosito. Mi dispiace.»
«Va bene, non fa niente», risposi fingendo di non dare troppa importanza a quanto era successo. «L’importante è che Karin si rimetta.»
«Credo non ci sia bisogno di dirti che la cosa deve rimanere tra noi.»
Gli feci segno di non preoccuparsi.
«Sei molto strana. Mi hai sorpreso accettando di andare a casa di Alice per rubare qualcosa.»
«Sì, neanch’io so perché l’ho fatto, forse non volevo vedere Karin soffrire.»
Fred mi scrutava con i suoi occhi da aquila. Forse neanche lui sapeva esattamente cosa vedeva in me.
Alla fine riuscii a liberarmi della coppia felice e ad andare al mio appuntamento con Julián al Faro, in mezzo alle palme selvatiche. Dissi che dovevo recarmi in farmacia a prendere qualcosa per la tosse: sebbene non mi avessero chiesto niente, era meglio prevenirli e non dare adito a supposizioni. Faceva freddo, e ogni giorno il cielo si scuriva sempre prima: di lì a poco ci saremmo dovuti incontrare al chiuso. Corsi più che potevo per quelle curve, desiderando con tutte le mie forze che Julián mi avesse aspettato, se non seduto sulla panchina o in gelateria, almeno chiuso in macchina. Se aveva avuto la pazienza di aspettarmi nonostante i miei tre quarti d’ora di ritardo, avrei avuto molto da raccontargli: le informazioni che mi ronzavano in testa erano davvero ghiotte. In fondo ringraziavo Dio per avermi fatto entrare in quella storia. Sapevo cose che nessun abitante di quella località poteva nemmeno immaginare. Ma le sapevo veramente o immaginavo di saperle grazie all’aiuto di Julián?
Come facevo sempre, per precauzione superai il Faro per parcheggiare accanto alla gelateria, che in quel periodo serviva di tutto tranne che gelati, e m’incamminai verso gli scogli. Il mare non si vedeva più, se ne sentivano solo il rumore e l’odore: era come essere ciechi. Avevo appena iniziato il tratto a piedi che sentii un clacson. Seguii il suono e trovai la macchina di Julián. Che sollievo! Che enorme sollievo! Ormai ero come un burattino in preda alle emozioni.
«Ero preoccupato», esordì quando aprii la portiera, e gli credetti, perché per lui come per me quegli appuntamenti erano sacri, erano il momento in cui i dettagli più assurdi e i comportamenti di Karin, Fred, Otto, Alice e Martín (tranne quello di Alberto) arrivavano ad avere un senso.
«Non potrò fermarmi molto, prima di rientrare devo passare in farmacia a comprare qualcosa per la tosse.»
«Ci ho pensato», disse lui. «Sono un pazzo, ti ho ficcata in un guaio, ti sto mettendo in pericolo, e tutto questo per cosa? Per quante informazioni riusciremo a raccogliere, non servirà a niente. Siamo soli, e loro sono di più e meglio organizzati. Qualsiasi cosa scoprissimo, non riusciremmo comunque a mandarli in prigione. Sono vecchi, gli ultimi avanzi di un incubo.»
«E i giovani? Martín, l’Anguilla», quando pronunciai il suo nome balbettai un po’, «e gli altri?»
«Molti fanno parte di organizzazioni segrete, e finché non fanno male a nessuno... come... sì, come a Elfe. Senti, davvero, non voglio che torni lì, non sappiamo di cosa sono capaci.»
«Non è ancora arrivato il momento, me lo sento. La mia vita è sempre stata un caos, ho fatto tutto così, senza pensarci, e adesso improvvisamente si sta incastrando tutto, ogni cosa che faccio contribuisce a formare una catena. Oggi, per esempio, volevo proprio dirtelo, è successa una cosa che mi sembra importante, ma non so fino a che punto.»
E in effetti lo era, perché a mano a mano che gli raccontavo delle iniezioni, dell’incredibile miglioramento di Karin e della vitalità di tutti in generale e di Alice in particolare, Julián scuoteva la testa, non molto ma abbastanza, come un segnale inconsapevole del fatto che ciò che stava sentendo coincideva con qualcosa che aveva in mente. E restò immobile quando gli dissi che sicuramente quel liquido aveva a che fare con l’evidentissimo aspetto giovanile di Alice. Proprio in quell’istante mi resi conto che Otto e Alice facevano gli avari con la medicina non per colpa mia, non per il fatto che i Christensen mi avessero accolta in casa, ma solo perché il prodotto scarseggiava e volevano tenerselo tutto per loro.
Quando dissi a Julián dei miei sospetti, aggiungendo che Fred era un manipolatore, che aveva cercato di usarmi perché rubassi quel farmaco e che farlo era stato molto peggio che mandarmi a rubare cocaina o eroina, lui si limitò a rispondermi che forse era così, o forse no.
«Come forse no?»
«Fin quando non ne conosceremo la composizione non potremo essere sicuri del perché litighino per quel liquido. Magari ha un effetto placebo: la gente è disposta a ingoiare qualsiasi intruglio che non rientri nei normali circuiti commerciali. »
«Ma se loro credono che funzioni è lo stesso. Magari stanno litigando per qualcosa che non vale niente pensando che invece sia molto efficace, soprattutto se fa effetto. E ti posso assicurare che a Karin lo fa eccome. Ha un’artrosi spaventosa, e quando si fa un’iniezione di quella roba le passano tutti i dolori.»
«Se fosse davvero una formula così straordinaria la guarirebbe per sempre.»
Dopo aver detto questo, rimase in silenzio e io feci altrettanto. Lasciammo cadere l’argomento. Era chiaro che il passo successivo da fare era procurarsi una di quelle fiale. Dopo avermi detto di andarmene da quella casa, Julián non me lo avrebbe mai chiesto, e io non mi sarei mai offerta di mia spontanea volontà. Non gli dissi neanche che ero stata sul punto di sottrarre una fiala dal pacchetto.
«Hai chiamato i tuoi?» mi chiese continuando a pensare alla nuova informazione che gli avevo dato.
Feci cenno di no con la testa. Cosa avrei potuto dire ai miei? Ogni settimana che passava avrei avuto meno cose da raccontare. Loro erano lontani e io lì, in due vite completamente diverse.
«Dovresti parlare con loro, sentire la loro voce, così ti ricorderai di chi sei veramente.»
Trattenni come sempre la voglia di parlare a Julián di quello che più mi importava, di Alberto e della possibilità di volare.